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4-5 giugno
TORINO Cavallerizza Reale

Prima Nazionale

LA REGINA DEGLI ELFI

di Elfriede Jelinek
regia Lorenzo Fontana

traduzione Roberta Cortese
con Roberta Cortese
e con Massimo Arbarello, Lorenzo Fontana, Sophia Leu
fisarmonica Marco Ambrosi
installazione scenografica Walter Visentin
con l'aiuto di Patrizio Crudo
luci Christian Zucaro

produzione Associazione Baretti, Festival delle Colline Torinesi

Elfriede Jelinek ha vinto il Nobel nel 2004 lasciando tutti stupiti, perché in realtà, al di là dei paesi di lingua tedesca, non la conosceva quasi nessuno. Nata nel 1946 a Mürzuschlag, nella Stiria (ironia della sorte: la stessa regione di provenienza di Haider), studia organo, flauto e composizione al Conservatorio di Vienna. Il padre, che prima del ‘45 era attivo come chimico nella ricerca militare e che a motivo di questa sua attività fu risparmiato dalla persecuzione antisemitica, viene colpito nei primi anni cinquanta da una malattia psichica, e finirà i suoi giorni in una clinica psichiatrica. Dopo alcuni semestri all’università, Elfriede Jelinek interrompe lo studio per via di una condizione psichica critica; ma è in questo periodo che ha inizio la sua attività di scrittrice: poesie e radiodrammi, soprattutto. Nel ‘74 sposa Gottfried Hüngsberg, che negli anni sessanta apparteneva alla cerchia capeggiata da Rainer Werner Faßbinder; nello stesso anno entra nel partito comunista austriaco, da cui poi si dimetterà nel ’91. È negli anni ’80 che compaiono i suoi primi romanzi (tra cui La Pianista, famoso per la sua riduzione cinematografica), le traduzioni di Feydeau e le prime pièce teatrali.

Nella motivazione per il premio Nobel si legge: "Per il fluire musicale di canto e contro-canto nei romanzi e nei drammi, che con straordinario ardore linguistico rivelano l'assurdità dei cliché della società contemporanea e il loro potere soggiogante". La Jelinek, infatti, ha sempre compiuto un’aspra critica nei confronti sia della società, sia delle forze in grado di manipolarla, partendo proprio dall’osservazione della sua amata-odiata Austria; contemporaneamente, ha adottato un linguaggio aperto alle sperimentazioni, ai cross-over tra poesia e slang, dramma e slogan, tragedia e porno; conferendo sempre alla parola e alla struttura narrativa caratteristiche e forme prettamente musicali, per cui si è quasi tentati di parlare di composizione, piuttosto che di scrittura.
Mentre in Italia è conosciuta soprattutto per i suoi romanzi, in realtà la Jelinek è autrice di numerosi testi teatrali, e il suo teatro è stato spesso oggetto di polemiche e autocensure in territorio austriaco, ulteriormente intensificate nell’ “era Haider”. La Jelinek ha comunque persistito nella sua attività di denuncia, continuando a sperimentare anche nella scrittura teatrale, tanto che per lei è stato coniato il termine di Sprachflächen: le “superfici di parola” in cui si esprimono i suoi personaggi; il dialogo è quasi sparito, per lasciare posto a una marea di parole che sommerge lo spettatore insieme al personaggio stesso che le ha pronunciate.

Così avviene anche in La Regina degli Elfi, monologo di apertura di Fa niente. Una piccola trilogia della morte: una trilogia di testi cinicamente “pensati per il teatro, ma non per una messinscena”, i cui titoli sono presi a prestito da altrettanti Lieder di Schubert. Qui in particolare il riferimento è (con un cambio di declinazione) all’Erlkönig, Il re degli Elfi, su testo di Goethe; il racconto della disperata cavalcata notturna di un padre con il figlio morente in grembo, che verrà inesorabilmente attirato dalle lusinghe malefiche e morbose del re degli Elfi, che lo rapisce nel suo mondo di morte.
Protagonista della piéce, come recita la didascalia, è “una famosa attrice del Burgtheater [di Vienna], morta, mentre viene portata tre volte in processione intorno al Burgtheater. È seduta nella bara. Le ossa le spuntano fuori da tutte le parti. Ogni tanto si taglia via un pezzo di carne e lo getta al pubblico.”
La “famosa attrice” non viene mai esplicitamente nominata dall’autrice, ma per il suo pubblico austriaco il riferimento è chiaro: si tratta di Paula Wessely (1907-2000), già protagonista di uno dei primi testi teatrali della Jelinek, Burgtheater, insieme al resto del suo “clan”: il marito e collega Attila Hörbiger, il fratello di quest’ultimo, anche lui attore, e le tre figlie nate dal matrimonio, che spopolano tuttora sui palcoscenici e nei film per la televisione austriaci. Viennese allieva fra gli altri di Max Reinhardt, la Wessely è stata l’attrice meglio pagata all’epoca del Terzo Reich, protagonista di numerosi film di chiara propaganda nazista (il più famoso è Heimkehr, di Gustav Ucicki), icona del cinema e del teatro austriaco fino alla sua scomparsa e nonostante i suoi trascorsi al servizio del regime di Hitler. La Regina degli Elfi è un’ode cinica a quell’Austria molto poco “felix” che non ha pagato per tutti i suoi crimini di guerra e, allo stesso tempo, una riflessione sul potere dell’attore (o di chi comunque ha in mano l’arma conferitagli da un media) e sul potere politico che può nascondersi alle sue spalle.

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